Fernando De Lucia ed Enrico Caruso, due modi diversi di cantare canzoni.
Non è un match, non si tratta di stabilire se l’uno supera l’altro. Nostra intenzione è mostrare come cambia repentinamente il modo di cantare agli inizi del secolo scorso, come si chiude una epoca e si apre un’altra.
Fernando De Lucia è stato inizialmente un tenore romantico, un tenore di grazia, poi si dette al verismo e cantò come tenore lirico, giungendo anche a interpretate ruoli di tenore lirico spinto, cosa per nulla benefica per la sua voce. Stilisticamente fu cantante tendenzialmente aulico, che fraseggia con molta libertà, cambiando tonalità, adottando un vibrato stretto quasi continuo, piazzando note filate lunghissime a suo piacimento, rallentando o accelerando anche quando non scritto. Insomma un mondo di cantare molto personale ed estremamente affascinante che chiude un’epoca.
Enrico Caruso viene dal popolo, cantó finanche da posteggiatore, fu un favoloso tenore lirico spinto con una voce di arcata violoncellistica dal timbro nella zona media vellutato. Lui apre l’epoca del canto moderno basato sul rispetto del pentagramma senza eccessi, esibizionismi, uso indiscriminato del vibrato. La famosa stroncatura del critico Saverio Procida, che il tenore prese cosí male al punto da non cantare più a Napoli, si ebbe proprio perché il critico aveva a modello De Lucia, e il cantare di Caruso gli apparve povero, poco significativo senza la spettacolari “ lagreme ” di De Lucia che lasciavano il pubblico col fiato sospeso.
Quindi due sommi artisti la cui diversità unisce la capacità di creare un tono dolente, nostalgico, di forza espressiva straordinario.
Quindi proponiamo l’ascolto di quattro canzoni che permettono osservare il radicale cambio stilistico di cui abbiamo detto. Osservare, gioire per tanta bellezza, abbandonarsi a tanta emozione e non opinare, giudicare, valutare. De Lucia e Caruso vanno amati indipendentemente. Ognuno è un mondo a parte. Due mondi che trascendono il puerile “mi piace o non mi piace”. Sono artisti che si pongono oltre il concetto di critica, oltre le classifiche. Si pongono nella categoria dei creatori del bello assoluto. E meritano un rispetto assoluto.
Fenesta che lucivi
(anonimo)
De Lucia, 1902, solo piano, voce scurissima, ovviamente più ferma rispetto alla versione successiva con orchestra, canto molto accorato, tristissimo.
De Lucia, 1921, con orchestra, molto lento, di un patetismo estremo, non si resiste alla commozione, questa volta la “lagrima” la ritroviamo più nella voce che nelle note filate.
Caruso 1913. Se esiste un Dio, questa è la sua voce, struggente eppure espansiva, d’una potenza inaudita. Voce ferma e luminosa negli acuti, timbro nella zona centrale d’una bellezza unica. Versione di riferimenti difficilmente superabile.
Mamma mia che vo sapè?!
(Ferdinando Russo – Emanuele Nutile, 1909)
De Lucia, 1911. Lentissimo, lagrima nella voce, che sembra baritonale, evita prudentemente gli acuti…
Caruso 1909. Tempo giustamente più mosso, voce scura sommamente espressiva, accenti accorati, acuti luminosi. Versione di riferimento.
‘O sole mio!
(G.Capurro – E. Di Capua 1898)
De Lucia 1909. Pessima registrazione, atmosfera intima, andamento lento, lunghe note tenute alcune bellissime, ritornello in falsetto, abbondante vibrato stretto.
Caruso 1916. Tempo giusto, tendenza a scurire la voce, vibrato minimo, ritornello potente, espansivo e di grande forza melodica, nessuna nota filata mantenuta troppo a lungo.
Canta pe’ mme!…,
(Libero Bovio – Ernesto De Curtis, 1909)
Incisa nel 1911 da un De Lucia, estatico, dall’andamento lentissimo, introverso e commovente. Nello stesso anno appare l’interpretazione con voce di violoncello, portentosa, irruente, travolgente di Enrico Caruso, forse insuperato nonostante la marea di tenori successivi.