Sergio Fiorentino interprete sublime di Cesar Franck
Sarebbe bene amarli più in vita gli uomini degni
che dopo morti,
poiché la lode postuma
o è un primo segno di rimorso
o un ultimo gesto di ipocrisia.
Libero Bovio
Tutto Celeste velocemente passa,
pero non invano.
Hölderlin
Fiorentino meditò a lungo sulla musica di Cesar Franck, ne parlammo a volte nei nostri incontri. Diceva che Franck “è al di là di tutto e di tutti, la sua musica permette di elevarsi e fondersi con il trascendente. Interpretarlo non è cosa da ragazzi e a parte quella di Richter non conosco altre interpretazione che si muovono in tal senso”. Nel 1995, all’età di sessantotto anni, il Maestro registrò a Berlino Prélude, Fugue et Variations, Prélude, Chorale et Fugue, Danse lente e Prélude Air et Final. Molti non saranno d’accordo, però tendo a considerare questo disco come la firma, l’atto finale che suggella la vita di un uomo che schivò la vita mondana per intraprendere un cammino spirituale che non poteva che terminare con le ultime registrazioni bachiane, la Sonata in si bemolle maggiore di Schubert e questo sublime Franck. Un uomo che si divertiva suonando canzoni e finanche canzonette o imitando pianisti jazz e al tempo stesso entrava i mondi di compositori estremamente complessi e profondi. E nell’uno e nell’altro caso la musica diventava perenne. Fiorentino faceva favola dei suoi itinerari incantati, che si ergevano a celebrazione della sua spiritualità, la spiritualità di un uomo a cui fu negato nell’infanzia poter vivere da bambino e che seppe riscattare questa perdita e vivere imbarcato sul veliero del sogno di una mente pura, che solo approda al porto dell’utopia.
Da Maestro Zen posso affermare che Fiorentino è stato un musicista Zen. Gli artisti Zen evitano ogni esagerazione, comunicano un’espressione con disciplinata misura, lasciando un margine all’ascoltatore, come se non avessero detto tutto. Sembra non rivelare i segreti di primo acchito. Celando la propria profondità, l’arte Zen non è mai pienamente conoscibile a prima vista. Quando si é pronti a essa, si scopre che ha sempre qualcosa di più. Le profondità delle interpretazioni di Fiorentino diventano palesi solo in seguito a ulteriori ascolti (se attenti). Ciò avviene anche perché inizialmente è la bellezza e luminosità del suono a catalizzare l’attenzione. E ne risulta una sensazione di forza. Il sentimento di aver solo intravisto il potere dell’artista piuttosto che aver sperimentato tutto quanto l’artista aveva potuto offrire e quindi il desiderio ineluttabile di riascoltare e comprendere, andare oltre.
L’artista Zen può negare la sontuosità e tuttavia lascia avvertire un senso di segreta pienezza. Mai è sovraccarico, mai ridondante, mai eccessivo. La semplicità, la composta naturalezza e mancanza di artificio, la verità del fare musica di Fiorentino è affine all’arte Zen, sempre essenziale, sempre spontanea e immediata. Cosi come nelle arti marziali la tecnica va dominata, perfezionata e infine trascesa, nell’arte di Fiorentino la tecnica sembra sparire senza interferire minimamente nella realizzazione dell’evento musicale. Lo Zen è nemico dell’analisi, amico dell’intuizione. L’analisi sta all’arte come la grammatica alla lingua viva. La cultura Zen spregia l’eccesso interpretativo, in cui vede la negazione dello spirito vitale. L’artista Zen comprende intuitivamente i fini della sua arte, e l’ultimo dei suoi desideri è istituire categorie. Il dichiarato proposito dello Zen è eliminarle completamente. Come si è detto, lo Zen spregia l’eccesso interpretativo e per questo Fiorentino evitava l’ascolto di pianisti come Cziffra (fenomeno da baraccone a suo dire) o Lazar Berman (che definiva “l’innominabile” e mai ne pronunciava il nome: un giorno andai da lui con una cassetta su cui avevo registrato alcuni Momenti Musicali di Rachmaninoff e gli dissi che a suonare era Oborin e in pochi secondi scoprì la verità: “Maestro Cesarini, avete fatto confusione nel registrare, questo è l’innominabile, togliete, togliete”).
Tornando a Franck, ancora una volta a soggiogare è la paletta timbrica, dovuta a un tocco che trasmette la chiara impressione che le dita non spingono giù i tasti cadendo su di essi bensì che li accompagnano prendendo il suono dalla tastiera. E’ gioco di polso e di mano, il polso non è rigido e le dita lasciano il tasto dopo che lo abbia fatto il polso. Quindi non si sente la botta, la percussione, il suono verticale. Il suono si espande ampio e sembra non avere un inizio netto. E fluisce orizzontalmente come il canto vocale o il fraseggio d’un violoncello.
Questo nella musica di Franck, spiccatamente organistica e mistica, diventa essenziale e questo rende l’interpretazione di Fiorentino assolutamente testuale. Oltre agli andamenti a tratti opportunamente lenti e il carattere meditativo. Notevolmente lenti il Prélude dell’Op. 18 e Danse lente, talmente lenta da durare 3 meravigliosi minuti e 38 secondi, laddove Jörg Demus chiude il brano in 2 minuti e 10 secondi. Con Fiorentino tutto si eleva come una delicata e profonda preghiera. Tutto sembra evocare In Paradisum di Gabriel Fauré. Tutto, dalla prima all’ultima nota, ci connette col divino. Non so se esiste un al di là dopo la morte. Certa musica invita credere che sì. Molta musica ci connette col divino. Il Franck di Fiorentino in special modo. Il sommo poeta Charles Baudelaire potrebbe trovare nel Franck di Fiorentino ciò che cercava nella musica: “L’elemento mistico… infinitamente grande e infinitamente bello.”
César Franck: Prélude, fugue et variations Op.18
César Franck : Prélude, Choral et Fugue
César Franck : Danse lente