Sergio Fiorentino: nel “suo” Bach dimora la bellezza di un universo ordinato.
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Quello che nasce da fonte pura è misterioso.
Appena al Canto
è riservato rivelarcelo.
Friedrich Hölderlin
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La saggia serenità è un portico verso l’eterno
Martin Heidegger
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Più che ascoltare altri pianisti, Fiorentino ascoltava il canto e leggeva filosofi e poeti. Non comparava esecuzioni pianistiche, tranne quando gli chiedevo di farlo per me, per fugare qualche dubbio che covavo. Le musiche che interpretava le apprendeva leggendone le partiture e non ascoltando dischi, tranne ovviamente i casi in cui si divertiva imitando Tatum o Nat King Cole. Non confezionava perentoriamente l’interpretazione come facevano, con intenzioni distinte, un Rachmaninoff, un Horowitz o un Gould; non cercava di tradurre o personalizzare.
Ciò a cui tendeva era mostrarci quella nudità che riveste l’emozione, come la nudità s’incarna in noi. Ci mostrava come mettere a nudo le più intime emozioni senza farne spettacolo. In realtà suonava soprattutto per se stesso. Non amava i concerti, amava suonare in casa per pochi amici. Da musicista che rispetta la nostra libertà, sensibilità, intelligenza, ci offre un suonare che permette di essere recettivi senza sottometterci. Lascia uno spazio alla nostra immaginazione. Mai appare come il demiurgo, il titano della tastiera che tutto può, soggioga, meraviglia, domina, come se stesse dicendo tutto quanto sia possibile dire.
Fiorentino è un amico che ci accompagna nel viaggio musicale, additando grandi bellezze sottovoce, come svelando segreti, offrendoci la musica quale ancora di salvezza del mondo alla deriva, aggiungendo in tal modo una terza possibilità a un’accertata frase di Heidegger: “Solo un Dio può salvarci, non ci rimane altra possibilità che preparare nel pensiero e nella poesia uno spazio per l’apparizione del Dio.”
Hegel affermava che il filosofare comincia in uno stato di coscienza dove “il puro conoscersi” si produce “nell’assoluto essere altro”. Credo che lo stesso si potrebbe dire del far musica di Fiorentino. Essendo di volta in volta Bach, Mozart, Chopin o Rachmaninoff scopriva il suo essere musicista e sapeva infallibilmente come far musica. Ossia si addentrava in se stesso grazie allo sdoppiamento, alla metamorfosi. Ovviamente senza questo processo non abbiamo vera interpretazione, abbiamo ripetizioni con leggere varianti di ciò che normalmente si fa suonando una musica composta da un altro.
Oppure, ribaltando la situazione, si potrebbe affermare che Fiorentino partiva dall’assoluto conoscersi ed essere se stesso, avendo una chiara coscienza e un’etica della vita, per poi entrare, con fare profondamente rispettoso, nel mondo altrui. Ben sapeva che senza “l’assoluto essere altro” non c’è vera musica ma solo solfeggio più o meno ben articolato. Così il suo suonare non era repêchage, un vivere al passato, ma uno stare in tempo reale nel mondo espressivo e poetico di un compositore, comprendendone l’essenza e facendo suonare la musica come se nascesse in quel preciso momento in un totale gesto d’identificazione con l’altrui linguaggio.
Il “suo” Bach esemplifica meravigliosamente quanto detto. E’ un Bach contemporaneo e al tempo stesso atemporale, come il Bach genialmente personale di Glenn Gould o quello liturgico e pur stilisticamente coerente di Rosalyn Tureck. Se Fiorentino avesse suonato durante gli anni Settanta come ha fatto negli anni Novanta sarebbe stato accusato quale “romantico” e quindi stroncato. Quando il virus che diffuse la febbre filologica fu inattivato dalla noia, ecco trionfare finalmente un Bach con sentimenti, espressivo, vario. E quindi i critici d’orecchio e cuore aperti lodano a tutto spiano il Bach di Fiorentino. Luc Nevers scrive su Classica (ottobre 2001), a proposito del disco Appian con le trascrizioni, che Fiorentino gli ricorda Kempff, Feinberg e Casadesus da lui visti come grandi maestri e conclude l’articolo entusiastico affermando che: “Nel Bach di Fiorentino dimora la bellezza di un universo ordinato.” Christopher Huss non è da meno equiparando Fiorentino a Brendel, Pogorelich, Lipatti e Perahia. Dello stesso tenore le critiche in lingua inglese di cui diamo solo qualche accenno: Kipnis si dice impressionato dalla straordinaria eloquenza della Quarta Partita (Cd Conspectus), Shoones nota come, fuori d’ogni intellettualismo, trionfano l’emozione e la gioia in un disco fenomenale (Piano Wereld). Whincop “sublime grazia della Siciliana” (amazon.com). Distler è affascinato soprattutto dal corale Jesus, Joy of man’s desiring (Classics Today), e Hopkins dà ad intendere che si tratta del Bach più espressivo da lui ascoltato (Instrumental, ottobre 2001).
Con Fiorentino ci troviamo di fronte a chi, lungi dall’annoiarci con manie filologiche, usa il pianoforte come tale, e da musicista segnato profondamente dall’intera storia di questo strumento, trascende lo strumento proiettato com’è verso la ricerca di una perfezione spirituale. Senza quasi muoversi dal suo luogo natale, Bach seppe darci la misura dell’universo e della forza che lo generò. Quando Fiorentino sgrana come un rosario di perle l’introduzione della Fantasia cromatica e Fuga sembra annunciare la Genesi. E sgrana le perle con la sola mano sinistra, per evitare totalmente l’impressione di frammentarietà si potrebbe avere suonando a due mani. Ovviamente poteva suonare benissimo a due mani, ma l’assunto è di ordine squisitamente mentale. La differenza esiste nel momento in cui si distribuisce il tutto nell’alternare delle mani, creando tanti frammenti, e la mente perde la fluidità di questo straordinario inizio. Glenn Gould si è dato da fare per dimostrare la frammentarietà di questa composizione: nella sua analisi i blocchi della costruzione suonano evidenti, difficili d’assemblare e Gould non si rende conto che nell’ effettuare questa demolizione non fa altro che evidenziare la genialità di tale composizione, dal carattere squisitamente improvvisativo. Fiorentino si muove in senso opposto, conservandone la freschezza e dandole unità. E lo fa a partire dall’introduzione, suonata con assoluto equilibrio, per poi puntare a un progetto musicale teso a mitigare il contrasto tra la Fantasia e la Fuga, costruendo quest’ultima come un grande affresco sonoro germogliato da quelle scintillanti note d’inizio.
Il Bach di Fiorentino è il Bach dell’anima, eloquente come nessun altro, lontanissimo dall’aridità, quasi costante, delle attuali esecuzioni bachiane. Non si può suonare Bach senza mettere in giuoco l’anima. Si racconta che, mentre registrava a Berlino l’ Allemande della quinta Suite francese, dovette a un certo punto interrompere la registrazione, perché Siegfried Schubert-Weber, il tecnico del suono, era scoppiato in lacrime, toccato nell’anima. Non si può ascoltare il Bach di Sergio Fiorentino senza mettere in giuoco l’anima.
L’ Allemande ci rivela compiutamente l’equilibrio di cui è capace Fiorentino nel coniugare storia e musicalità senza lasciarsi sedurre dal gioco virtuosistico, dagli effettismi fini a se stessi. All’origine severa e pesante danza tedesca, che diventa più leggera e si ammanta di malinconica grazia quando entra nelle corti dei Re francesi: questa è l´Allemande. Infatti Allemande è termine francese e Bach usa questo termine. Quindi danza lenta, lievemente malinconica e non priva di grazia. E così la fa rivivere Fiorentino suonando quella della prima Partita senza precipitarsi in una corsa frenetica (3,19 minuti contro 2,31 di Lipatti e 1,45 di Glenn Gould), e in quella sublime della quarta Partita, poco più di quindici minuti, che troppi pianisti rivestono di sopore che proietta facilmente tra le braccia di Morfeo mentre qui cantabilità e ricchezza timbrica mantengono alta l’attenzione e l’emozione: esempio trascendentale di far musica non tanto con la tecnica quanto con l’espressione e una nobiltà di suono più uniche che rare.
E’ ben noto come Bach fosse stato uomo profondamente religioso. La gran quantità di musica sacra da lui composta è un’immensa sublime lode a Dio. E lo è anche la musica profana. Sempre a mio avviso si tratta di un corpus musicale assolutamente e genuinamente sacro, nel senso che travalica Dio, Dei e uomini. Un sacro più antico del tempo, l’essenziale che come tale permane e il suo permanere è eterno. Evidentemente non c’è diverso approccio alla musica bachiana di quello che la vuole trampolino verso l’elevazione dello spirito, come anelito della sacralità cui abbiamo accennato. In questo senso si mosse Glenn Gould, partendo dal basso per ascendere dove nessuno prima di lui aveva potuto. In questo senso si muove anche Fiorentino al tempo delle prime registrazioni (Fantasia cromatica, Ciaccona); nel decennio successivo poi, e negli ultimi anni, spiritualizza il suo far musica a tal punto che l’ascesa diviene discesa.
Calma, densa di pace, quietamente allegra, a momenti delicatamente gioiosa, è la voce dello spirito che viene a noi. Come il duduk di Gasparyan, il cui suono è sentito dagli armeni come il canto del divino, che giunge ovviamente dall’alto, il pianoforte di Fiorentino scende verso di noi intrecciando frasi amorose in una polifonia fatta di suoni di assoluta purezza. Suoni velati, densi di canto, di melodia, solenni e nobili nelle sarabande, luminosi, raggianti e felici quando marcano il ritmo di una giga. Il giubilo della connessione con la forza creatrice, lo scopo ultimo e unico dell’umana esistenza.
Come si è detto in prefazione, questo scritto non nasce per discutere aspetti tecnici dell’esecuzione pianistica; non scende in dettagli incomprensibili per il lettore non musicista. Perciò non si andrà a esaminare la risoluzione degli abbellimenti (è ridicolo sindacare sulla risoluzione degli abbellimenti, che all’epoca di Bach erano improvvisati) o il rispetto o meno di un ipotetico stile bachiano, o in che maniera Fiorentino modifica in qualche punto il testo o rivede le trascrizioni busoniane (dove evidentemente non fa altro che alleggerirle). Solo c’è da dire del prodigioso controllo del tocco, dovuto anche alla cortissima distanza tra dito e tasto, al contatto con esso nell’affondarlo senza percuoterlo, al variare impercettibilmente il punto di contatto o meglio detto di adesione (punta del dito o polpastrello), che gli permette un suono che può mantenere la matrice pizzicata delle musiche nate sul clavicembalo, che accoglie lo spirito violinistico nelle trascrizioni da questo strumento, che si fa organistico nelle trascrizioni busoniane e assurge a colori vocalistici nelle trascrizioni di brani delle Cantate, che amava sommamente, e ascoltava raramente pianisti suonare Bach, ascoltava le Cantate, le Passioni, le Messe. E quindi il suo suono bachiano è intriso di canto. Canto senza parole. Un suono che annulla il pensare e il ragionare, che espande l’anima, la dilata in una serenità che permette unicamente di ascoltare.
E c’è anche da chiarire che il suo non correggere qualche nota falsa nelle esecuzioni in studio non si deve al vezzo di voler apparire spontaneo o naturale. Si deve al suo desiderio di verità. Nessun maquillage. Non ha senso fingere la perfezione. Nessun pianista può essere costantemente perfetto; nemmeno Michelangeli lo era, il portabandiera della perfezione ad oltranza (che finiva con l’inibirne la musicalità). Neanche la forza creatrice (la si può chiamare Dio o come si vuole) è perfetta. Se lo fosse l’uomo non sarebbe ciò che è.
Quindi Fiorentino non permise nessuna manipolazione in studio di registrazione, lasciandoci ascoltare la sua musica così come appare. Il suo Bach viene dall’alto, con incantevole chiarezza e purezza. Il divino che scende a noi indicandoci un cammino di candore, d’ordine armonioso, di semplicità nella complessità, di speranza in una pace sempre negata dal fare e disfare umano.
Sergio Fiorentino (1927-1998) plays Bach during the «Geneva International Piano Competition» – October 3 1947, Victoria Hall
Sergio Fiorentino plays his transcription of Bach Corale BWV 147.
amateur recording during a masterclass in Ischia, August 1988.
The great Neopolitan pianist Sergio Fiorentino performs the «Allemande» from Bach’s Partita No. 4, BWV 828.