Sergio Fiorentino tra i sommi interpreti di Tchaikowsky
Appunti per la storia della interpretazione di un celebre concerto.
La storia dell’interpretazione del primo concerto di Tchaikowsky per pianoforte e orchestra inizia nel migliore dei modi con un documento sonoro che ci permette di avere un’idea di come fosse interpretato al tempo che in cui fu composto. Il pianista Vassili Sapellnikoff, nato Odessa nel 1868, appena ventenne suonò questo concerto ad Amburgo sotto la bacchetta dell’autore. Quando lo registrò, nel 1926, aveva quindi cinquantotto anni e mostra d’essere in buona forma. Suona senza forzare, senza entrare in guerra con l’orchestra dopo aver gonfiato i muscoli, senza ottave a mitraglia. Suona da pianista solido, forte tecnicamente come altri grandi usciti da quella fucina di musicisti che fu Odessa: Barere, Moiseiwitsch, Scherkassy, Gilels tra i maggiori pianisti ed Elman, Zimbalist, Haifetz e Oistrack tra i violinisti. Suona andando oltre la tecnica scandagliando a fondo il mondo espressivo di Tchaikowski, la sua sensualità, la sua passione. Suona secondo i dettami della scuola russa di pianoforte creata da Anton Rubinstein, Siloti, Blumenfeld, Goldenweiser, portata al massimo livello da Heinrich Neuhaus e caratterizzata da una potente tecnica al servizio dello spirito della musica ponendo l’accento sulla bellezza plastica del fraseggio e del suono.
Due anni dopo Solomon registrerà una versione che accenna il taglio tardo romantico alla maniera brahmsiana con qualche tocco di neoclassicismo (lo stesso pianista realizzerà nel 1949 una versione migliore sia sul piano orchestrale sia di resa fonica). Nel 1937 appare un’altra interpretazione storica, quella di Egon Petri, il più importante pianista della scuola di Ferruccio Busoni, con un linguaggio musicale solido, fatto di bel suono e fraseggio intenso. Nel 1941 appare la leggendaria performance squisitamente virtuosistica di Horowitz con la direzione formidabile di Toscanini e poi nel 1945 l’interpretazione di Moiseiwitsch: una lezione di stile in cui il suonare trascende la tecnica per penetrare nel profondo della complessa personalità di Tchaikowsky. E ancora da un pianista di Odessa appare nel 1954, in un disco Deutsche Grammophon, la prima versione di Shura Cherkassky, grande virtuoso che tralascia la prestidigitazione per mostrarci un Tchaikowsky introverso, nobile nel tempo centrale, d’una lieve ironia del finale. Dello stesso anno si conserva una bella, potente interpretazione di Maria Yudina, magnifica pianista russa non famosa quanto meriterebbe. Tecnica eccellente, buon gusto. Momenti molto coinvolgenti, forse sarebbe stata auspicabile in qualche frangente un po’ più dolcezza e cantabilità, ma qui subentrano questioni di gusto.
Un anno dopo, con dita poderose e cuor di leone, leone forse poco riflessivo, Emil Gilels consegna alla storia la più acclamata delle sue molte versioni (nove per quello che so) su disco: sul podio il direttore Fritz Reiner. Gilels mostra da par suo un pianismo robusto, andamenti leggermente rapidi, suono scultoreo, apollineo: fa di questo Concerto una grande scultura nello stile di Fidia. Classico al quadrato, il pianista è poco propenso alle sottigliezze e all’eleganza che scade nell’affettazione, al giuoco del sedurre la platea con incantesimi e trovate spettacolari; non a caso era restio a concedere bis. La sua misura è retta, nobile, regale diremmo, e il suo suono non perde la bellezza plastica nei passi fortissimi e veloci, cosa che non sempre Richter è capace di fare.
Un anno dopo si pubblica in Russia quella che molti considerano la versione di riferimento assoluta: Sviatoslav Richter, Orchestra Filarmonica di Leningrado, direttore Mravinsky. Ovviamente la musicalità di Richter è fuori discussione, la sua versione è scevra da esibizionismi, però fa albeggiare il sospetto che non ami questo concerto di un amore totale e che lo suoni, benissimo, ma per puro dovere, come deve fare un grande pianista russo. Successivamente Richter proporrà un’altra importante versione registrata a Vienna con la direzione di Karajan.
Non conosco la data d’esecuzione e non posso evitare di ricordare la grande pianista bachiana Tatjana Nikolayeva ripresa in concerto a Lipsia con la Gewandhausorchester diretta da Kurt Masur. Una versione che coniuga potenza e profondità, dettata da una mente dotata d’un’intelligenza musicale eccezionale. Con la Judina e con Martha Argerich, la Nikolayeva forma il trio delle più interessanti interpreti di questo concerto. In campo maschile l’elenco sarebbe molto più lungo: esistono interpretazioni per tutti i gusti: Rubinstein, Arrau, Curzon, Askhenazy, Cziffra, Wild, Janis, Clibun, Baremboim, Gutierrez… per fare qualche nome.
E quindi veniamo a Sergio Fiorentino che registrò questo concerto ad Amburgo il 18 maggio del 1959 con la direzione di George Hurst, il quale regalò al pianista una sua incisione di estratti del King Arthur di Henry Purcell: da qui iniziò immediatamente un grande amore di Sergio per il compositore inglese, che giunse a definire come uno dei maggiori di ogni tempo e latitudine. Hurst non conobbe grande fama pur essendo musicista colto e ben preparato. Del segno del Toro come Tchaikowsky ne coglie bene la sensualità, il senso di abbandono, la sofferenza mai espressa platealmente. Essendo un Toro avrebbe preferito un passo più lento, però con un Sagittario al pianoforte non serve tirare la briglia e ancor meno se il Sagittario quasi Capricorno si chiama Sergio Fiorentino, irremovibile nelle sue scelte musicali. Non nel senso di una rigidità verso se stesso e le sue scelte, quanto di una totale autonomia e giusta considerazione del fare altrui non lasciandosi influenzare da nessuno, si chiamasse Karajan o Rubinstein. Quindi, con mani capaci di ottave doppie che pochi potrebbero eguagliare, Fiorentino ci porge questo concerto in un piatto d’argento per dirci della sua visione di Tchaikowsky, musicista tardo-romantico non emulo di Brahms bensì portatore di uno spirito, di un’anima autenticamente russa. Lui, piccolo grande napoletano, da solo fronteggia i quattro super-pianisti di Odessa: Sapelnikoff, Moiseiwitsch, Cherkassky e Gilels, essendo Cherkassky quello a lui più vicino. Solo contro quattro. Potrebbero dargli man forte Aldo Ciccolini e Michele Campanella per dar vita a una formazione napoletana (questo Concerto poco si addice al carattere di Maria Tipo, però potrebbe suonarlo meglio di molti acclamati pianisti attuali: forse per fare quartetto poteva andar bene Paolo Spagnolo, ma non ha lasciato registrazione di questo concerto), in realtà Fiorentino non ha bisogno di aiuto alcuno, e da solo dà ai giganti ucraini una luminosa lezione d’interpretazione di quest’abusato Concerto, una lezione fatta di squisita cantabilità, fraseggio mai rigido, sonorità variegate in una magica atmosfera da cui la musica si eleva e ci commuove. Laddove Richter punta a un’eloquenza misurata, quasi severa, e Gilels scolpisce come un Michelangelo, Fiorentino dipinge come un Raffaello e canta con un’espressività e una grazia come solo a Napoli si sapeva fare (mi riferisco ai tempi di Fernando de Lucia, Caruso, Rosa Ponselle, Pasquariello, Vittorio Parisi…).
Fiorentino non giunge mai a conclusioni interpretative senza averle meditate coniugando poi intelligenza e sentimento, cervello e cuore, che si muovono all’unisono guidando mani che trascendono ogni difficoltà. Non tira a indovinare le intenzioni del compositore. Entra naturalmente, istintivamente nel mondo di un musicista problematico come Tchaikowsky o chiunque altro: era capace di leggere qualunque partitura e sapere immediatamente come organizzare l’interpretazione. E sempre con una visione mai frammentaria, sempre giungendo al cuore del compositore, decifrandone i misteri, scoprendolo fino in fondo, il tutto senza sforzo. E quindi raccontarcelo senza far spettacolo. In un mondo del falso, dell’artificioso, del mercificato, lui cercava e trovava la verità, sempre. Quando si sedeva al pianoforte, in un istante si concentrava con vera devozione verso la musica e verso chi lo ascoltava, senza la minima preoccupazione di tipo tecnico. Si sedeva allo strumento e lo strumento sembrava sparire e quindi, in forma di suoni, appariva la verità.
Sergio Fiorentino plays Tchaikovsky Concerto No.1 in B flat minor Op. 23
- Allegro non troppo e molto maestoso – Allegro con spirito
II. Andantino semplice – Prestissimo – Andantino (17:53)
III. Allegro con fuoco (24:34)Hamburg Pro Musica (NDR SO, Hamburg)
dir. George Hurst
rec. 1959