

L’urdema canzone mia
(Vincenzo Russo – Eduardo Di Capua, 1904)
Raro esempio di una morte annunciata con versi, che, se da un lato possono essere macabri, dall’altro sono molto commoventi. Vincenzo Russo lasció ad Eduardo Di Capua il manoscritto di L’urdema canzone mia sotto il testo scrisse: «E’ l’urdema canzone ca ve scrivo, ‘mparatavella e tenitavella ‘ncore. Addio canzone meje, io me ne vaco e vuie restate pe’ ricordo ‘e me» (E’ l’ultima canzone che vi scrivo. Imparatela e portatela nel cuore. Addio mie canzoni, io muoio e voi restate in mio ricordo). Quella di Vincenzo Russo (Napoli 18 marzo 1876) poeta e celebre compositore di canzoni napoletane, è una storia bellissima e commovente. Una storia breve, pero’, perchè il poeta morira’ a soli 28 anni minato da una malattia e forse distrutto anche da un amore che non gli fu mai permesso.
Nasce povero Vincenzo da padre Giuseppe, calzolaio e la madre Lucia Ocubro, donna di casa. Per motivi di salute non frequentò le scuole elementari, l’umidità della casa insieme ad una alimentazione precaria minò la sua salute e quella dei suoi fratelli, ma ciò nonostante raggiunse un discreto grado di istruzione, frequentando i corsi serali per operai. Inizió a scrivere poesie.Il suo aspetto malaticcio, era gravemente malato di tubercolosi, fece aleggiare la fama di «assistito»cioè gli si attribuivano virtù medianiche come quella di indovinare i numeri a lotto. Dopo la morte del padre, dovendo contribuire al bilancio familiare, trovò lavoro come guantaio, ormai era convinto di dover dire addio alla poesia, finché non incontrò il musicista Eduardo Di Capua. Il sodalizio produsse alcune belle canzoni tra cui il loro primo capolavoro, Maria Marì, che ottenne grande risonanza mondiale e I’ te vurria vaso. La vena poetica del Russo ormai era sul malinconico, animata da donne restie a concedergli affetto, i nomi erano diversi, Carolina, Maria, Carmela ecc..Ma tutti questi nomi erano solo un modo per proteggere l’identità dell’unico suo amore, come risulta dalle memorie della famiglia, Enrichetta Marchese, figlia di un gioielliere dirimpettaio di Russo. La differenza di classe sociale, nonostante l’amore di Russo fosse corrisposto, non ne rese possibile una felice conclusione.
Nel mese di giugno del 1904, Vincenzo Russo ormai molto malato, si alza dal letto, va alla finestra e guarda la chiesa di fronte tutta addobbata con ghirlande di fiori e piante, Enrichetta si sposa, lui non riesce a stare in piedi, torna a letto e chiede al cognato, che lo assiste, di prendere un foglio, vuole dettargli qualcosa:
Nun me parlate cchiù d’ ‘e sciure ‘e rrose!
Pe’ mme ‘sti rrose songo senz’addore.
Nun me dicite: ‘a giuventù è ‘nu sciore
Ca chistu sciore mio è muorto già!
Pe’ mme tutt’è fernuto.
Addio, staggione belle!
Addio, rrose e vviole,
I’ ve saluto!
Oje sole, sò, tu pure m’hê lassato.
Tu pure me ll’hê fatto ‘o tradimento.
‘Nu friddo acuto dint’a ll’ossa sento
E manco tu me può venì a scarfà.
Pe’ mme tutt’è fernuto.
Addio, sole d’abbrile!
Addio, sserate ‘e luna,
I’ ve saluto!
Mò ca poch’ ati ssere ‘a luna vene
Ch’è raggio argiento a ‘stu barcone mio,
Marì, famme passà chistu gulio:
Ll’urdema vota te voglio vedè.
Pe’ mme tutt’è fernuto.
Addio, sserate ‘e luna,
Vita e speranza, addio!
I’ ve saluto!
Dal posteggiatore Pietro Mazzone, che nel 1910 registró una versione che resta esemplare, a Fedinando Rubino fino ai tempi piú vicini di Giulietta Sacco e finanche a Mario Merola, col suo accento lievemente truce, vari interpreti hanno registrato questa meravigliosa canzone non facile da interpretare e che molti hanno evitato cantarla poiché porterebbe iella. Purtroppo la versione di Mazzone (che si concede una libertà sul finale, molto incisiva, Pe’ mme tutt»e fernuto! Addio…amice care, Vicienzo se ne more…e ve saluta!) è assente in Web e ringrazio Ciro Daniele che me ne ha permesso l’ascolto. E non è in Web nemmeno l’’interpretazione di Giuseppe Godono, tenore che sfoggia filati notevoli e pur tenoreggiando fa ascoltare la lacrima nella voce: versione suggestiva.
Qui un selezione di otto versioni, alcune storiche e non proprio esemplari e altre che ci permettono in vari modi di entrare nel mondo poetico di Vincenzo Russo.
Ferdinando Rubino
Omette la seconda strofa e non trova gli accento e il tono giusti.
Mario Pinto
Omette la terza strofa, forza l’emissione e non brilla per finezza di fraseggio e di accenti.
Francesco Albanese (1947 ca.)
Finalmente il rispetto del segno scritto, omissione della terza strofa, opportuno l’ accompagnamento del maestro Anepeta, la classe di Albanese è fuori discussione, però questa canzone non é per tenori lirici.
Luciano Rondinella (1959)
Accenti vibranti, intensa vocalità che coglie il senso della canzone pur con un tono non sempre intimo, che tende a un dolente drammatismo.
Fausto Cigliano
Fausto Cigliano é artista du superiore caratura che mai delude, nemmeno in questo caso nonostante si ritrovi a dover ricreare un’atmosfera non esattamente collimante col suo stile di canto.
Nunzio Gallo
Omessa la seconda strofa, bella voce baritonale, fraseggio intenso ma non realmente drammatico, versione apprezzabile.
Mauro Caputo
Il tono sommesso di Caputo dice di una serena accettazione della morte. Certo è alquanto difficile accettare una morte così dolorosa e così prematura. Però Caputo sembra confidare nella maturità del poeta e imposta la sua interpretazione evitando accenti troppo drammatici e laceranti, e cantando con fluidità e giusta espressione melodica.
Salvo D’Angiò
L’andante sostenuto indicato in partita è mantenuto con una agogica molto spinta, linea vocale intensamente melismatica con opportune ampie escursioni dinamiche. Interpretazione dolente, intensa, eccellente…